di Paolo Fasce
Nel corso degli ultimi cinquant’anni, la storia dell’inclusione scolastica è giunta al sacrosanto risultato di raggiungere tutte le studentesse e gli studenti disabili, anche se nelle scuole secondarie di secondo grado questa storia è certamente più breve. In tutti gli ordini e gradi, formalmente, non ci sono più ostacoli, ma non è del tutto così e ancora molto occorre fare, soprattutto a livello qualitativo. Il primo vero problema dell’inclusione è che questa è diventata “cultura d’istituto”, ma non per formazione e preparazione dal basso. Semplicemente, troppo spesso, si prende atto della situazione e ci si attrezza. La conseguenza, tuttavia, è che ci sono scuole entro le quali questa cultura è assai lontana, come è evidente nell’ambito dei licei scientifici e classici, dove le prestazioni richieste sono ancora molto alte (il tema di quanto le didattiche adottate portino ad apprendimenti duraturi e quanto siano quindi efficaci gli sforzi richiesti ai nostri ragazzi e alle nostre ragazze occorrerebbe affrontarlo in un capitolo a parte) e i disabili, implicitamente respinti.
Una mia risibile statistica mostra come gli studenti e le studentesse disabili che frequentano quelle scuole sono spesso figli e figlie di magistrati, docenti universitari, medici. Sul fronte qualitativo, sono ormai lustri che, specie nella scuola secondaria, ci si lamenta della mancata continuità, essendo le università incapaci di formare un numero sufficiente di insegnanti specializzat*, specie nella parte settentrionale del paese, al netto del fenomeno della mobilità interregionale che aggrava il fenomeno.
Considerata la longevità dei problemi che gravano sull’inclusione e la varietà del colore politico dei governi che si sono succeduti in questi ultimi, almeno, vent’anni, è evidente che ogni soluzione della categoria del “cacciavite” non può che fallire e in questa sede se ne propone una strutturale perché vera soluzione al problema è legata ad un cambio di paradigma logico: da quello dell’insegnante di sostegno reclutato in gioventù che poi passa al posto comune, a quello che converge verso il sostegno per professionalità e vocazione.
Oggi l’insegnante fugge dal posto di sostegno perché è retribuito come quello di posto comune, ma nelle gerarchie implicite dell’aula, si tratta di una posizione meno prestigiosa e le persone vivono anche di soddisfazione personale e professionale come ci insegna la piramide di Maslow. Bisogna quindi dare motivazioni bilancianti e queste sono fornite dalla cosiddetta “cattedra mista”. Una cattedra entro la quale l’insegnante possa lavorare sia come insegnante di posto comune che come insegnante di sostegno.
La ricompensa per questa disponibilità dovrebbe essere assicurata da uno stipendio più alto, cosa possibile grazie alle ore eccedenti (senza ulteriori oneri per la finanza pubblica). 12 ore di materia e 8 di sostegno costituiscono una cattedra di 20 ore che viene quindi pagata più di una di 18. Naturalmente sono possibili elasticità che arrivino fino a 24 ore (da 12+8 a 12+12).
Un’ulteriore elasticità è data dal numero di ore su posto comune (che può dipendere dalle quantizzazioni delle diverse materie, per questo si è indicato 12, trovando questo numero molti divisori).
Qualcuno potrebbe obiettare che questa modalità renderebbe complicato il lavoro degli Uffici Scolastici Regionali nella gestione degli organici, ma invero si tratta di una critica infondata giacché grazie all’informatizzazione, queste cattedre dovrebbero essere dichiarate preventivamente dai dirigenti scolastici al sistema che se ne potrebbe fare carico agevolmente e, persino, essere durature. Da un lato avremmo il ritorno su sostegno di molti insegnanti specializzati, dall’altro occorrerebbe attivare percorsi di specializzazione per insegnanti di posto comune interessati e disponibili a questo tipo di carriera. Sul tema dell’elasticità sopra indicata, il passaggio da 18 a 24 ore potrebbe essere graduale e legato all’anzianità sulla sede di servizio.
Un trasferimento potrebbe causare un ritorno alle 18 ore. Vedo quindi tre situazioni. Quella del rientro sul sostegno da parte di docenti specializzati passati sulla materia, da sostenere semplicemente con l’incentivo economico, e la generazione a partire dai posti di sostegno verso la cattedra mista. Per quel che riguarda la seconda, oggi, dopo cinque anni di impiego sul sostegno, si può passare sulla materia e questo fenomeno sarà limitato, ai sensi della normativa vigente, dal fatto che oggi un insegnante specializzato sempre più raramente è anche abilitato, ma la stagione dei concorsi può tuttavia interferire con questo fenomeno. Dopo cinque anni di impiego sul posto di sostegno, col modello che si propone in questa sede, si potrebbero serenamente attivare corsi abilitanti per cattedra mista, vincolando quindi il docente ad ulteriori, diciamo, dieci anni di servizio secondo questa modalità. Considerato lo stipendio maggiorato, sono pronto a scommettere che difficilmente si avrebbero passaggi al posto comune dopo questo periodo, a queste condizioni, al netto del caso dei part time che dovrebbero essere assegnati in proporzione.
Non sempre il passaggio a cattedra mista sarebbe possibile, penso in particolare al fatto che ci sono molti insegnanti di sostegno che provengono da classi di concorso con poche o pochissime cattedre. Spesso lavorano in scuole dove la propria classe di concorso proprio non esiste. Si tratta qui di altro tipo di fenomeno sul quale mi riservo un successivo approfondimento.
La terza situazione è relativa al fatto che questa modalità renderebbe l’impegno sul sostegno interessante anche per chi lavora su posto comune. In questo scenario, le candidature potrebbero essere vagliate dal comitato di valutazione integrato da un esperto (se ci fosse, il famoso “docente esperto”, ma anche eventuali esperti individuati dalle università) che dovrebbe monitorare il lavoro ordinario affinché il passaggio alla cattedra mista sia garantito da didattiche attivistiche alle spalle e non da mera necessità di denaro cosa che, beninteso, è perfettamente legittima. Infine, quale che sia il percorso tramite il quale si accede alla specializzazione, l’università dovrebbe essere investita dei poteri necessari per fare filtro sulle qualità umane e professionali dei candidati attraverso colloqui e modalità scientificamente accreditate per evitare di promuovere persone inadatte ad un compito tanto prezioso e delicato.